Post-cards

L’Odissea minimal di Bob Wilson

Keywords

Torno dal Piccolo Teatro di Milano dove ho visto l’Odyssey di Bob Wilson e come sempre rimango incantato dalla magia della messa in scena, la rarefazione, la limpidezza delle immagini, ma soprattutto dall’uso magistrale della luce.

La luce definisce le forme quasi scolpendole nello spazio, sui fondali tersi si stagliano attori e oggetti ripuliti da ogni interferenza, netti, senza ombre.

Quella di Wilson è un’operazione sofisticata che produce sempre un risultato per così dire semplificato, ripulito dal non necessario.

Nella sua Odissea Wilson dice di aver voluto trasformare un’opera letteraria pesante in una narrazione leggera in cui rappresentare la luce blu e radiosa

che si porta ancora dentro dal primo viaggio ad Atene.

 

Il mio primo incontro con Wilson è stato a Copenhagen nel 2000 dove rappresentava il Woyzeck con musiche di Tom Waits.

Restai folgorato dalla stupefacente rilettura dell’espressionismo tedesco, dai riferimenti alle figure di Kirchner e del movimento “Il Cavaliere Azzurro” con le loro tonalità calde e violente. Dagli abiti di scena dai tratti appuntiti e spigolosi che a me ricordavano anche i costumi futuristi di Balla e Depero.

Sui fondali delle scene inclinate,  proiezioni a trame geometriche sghembe e grafiche di grandi segnali, come a rappresentare il disorientamento dell’uomo. Nelle scene di Wilson gli attori sul palco si muovono con movimenti meccanici, come oggetti, diventando elementi astratti della scena con i loro volti bianchi illuminati da colori accesi.

Eppure un contesto di grande rigore e pulizia formale.

La sua poetica minimalista, in cui oggetti e attori sono considerati in modo paritetico, fa riferimento alle luci di Dan Flavin, alle installazioni di Donald Judd,

e per Wilson anche alle architetture di Louis Kahn e alla luce di Rembrandt.

Alla fine il minimalismo è l’ottenimento del massimo effetto spaziale ed emozionale con il minimo degli elementi architettonici.

 

I’m just coming back from Milan’s Piccolo Teatro where I saw Bob Wilson’s Odyssey.  As always I’m enchanted by the magic of the mise- en-scene, the rarefaction, the clearness of the images, but above all by the masterful use of the lights.

The light details the shapes, nearly carving them in the space, on the clear backdrops the actors and objects are cleansed from any interference and stand out, sharp, without shadows. Wilson’s is a sophisticated operation which always creates a sort of simplified result, cleansed from the unnecessary.

 

In his Odyssey, Wilson says he wanted to transform a literary work hard into a narrative which represents a radiant blue light that he still feels within from his first trip to Athens.

 

My first encounter with Wilson was in Copenhagen in the year 2000  where he was  performing Woyzeck with a Tom Waits soundtrack. I was overwhelmed  by the astonishing new interpretation of the German expressionism and by the references to Kirchner’s pictures and by “The Blue Night” movement with their warm and violent tones. Even more: by the costumes with sharp and pointed features which reminded me of  Balla’s and Depero’s futurist costumes.

 

On the backdrops of the sloping settings there are projections of crooked geometric waves of light and artworks of big signals that  represent mankind’s uncertainty. In Wilson’s scenes, the actors on stage move with mechanical gestures, like objects, becoming abstract elements of the scene itself, with their white faces enlightened by intense colours.

 

And yet there’s a context of great accuracy and polished stylish.

His minimalist poetry, where objects and actors are equally considered, makes reference to Dan Flavin’s lights and Donald Judd’s installations.  And, as even he said, even to Louis Khan’s architecture and Rembrandt’s light.

In the end, minimalism is the obtaining of the biggest spatial and emotional effect with the least amount of architectural elements.